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(estratto dall’omonimo libro di Ettore Alinghieri)

“Il tuo Gide aveva torto”, mi disse più volte Fusco. “Non è vero che partire dà felicità e ritornare fa tristezza”, spiegò. “Ritornare a Spezia mi fa sempre felice”, commentò convinto.

Una delle ultime volte che ritornò (prima di andarsene per sempre, da questo e da ogni altro possibile punto dell’universo), Fusco mi sottopose a una delle sue irragionevoli prove d’amore.

Amava hors frontières questa città. E voleva assicurarsi che anch’io l’amassi davvero. Non nel frigido senso degli intellettuali: senza passione.

Mi accusava di litérature, di ipocrisia.

In fondo, dubitava del mio amore per lui stesso.

Mi chiama ipocrita, bacialibri (beccialibri, talvolte). Incapace di forte sentimento.

Crociano com’era (carogna di un Fusco, giacobino del ’45, com’era crociano!) sosteneva che se avessi avuto un autentico love per Spezia, avrei scritto di essa.

“L’intuizione nasce dal sentimento”, mi urlava sul viso, “e l’intuizione è, essa stessa, espressione.”

Mi difendevo, dicendo che non ero lui. Non avrei mai posseduto l’emotiva creatività di “Curacasi”. Pur se mi inginocchiavo, ripensando al suo racconto stupendo.

“Perché non hai fatto come Malaparte?” sbraitava recitando. “Avresti voluto scrivere Città come me?” inquisiva.

“Nemmeno per sogno”, rispondevo.

Allora, Fusco mi contestava di essere stato il rappresentante di Malaparte alla Spezia, in anni lontani. “A quel tempo, non c’era di meglio”, replicavo. “Comunque Suckert aveva scritto Kaputt“, obiettavo, con discreta energia.

Azzardavo: “Da Il Volga che nasce in Europa, anche tu hai imparato qualcosa”.

Capivo che la sua requisitoria non sarebbe finita. Era chiaro che Fusco cercava una folle rissa d’amore.

“Sei stato un leccapiedi”, mi disse sdegnato. “Tu hai lodato perfino quella banalità teatrale: Anche le donne hanno perso la guerra.”

Replicai che mi sedusse il telegramma che Malaparte ricevette da Salvini, dopo la consegna del terzo atto.

Malaparte lo lesse a Villa Hildebrand (“nel Forte dei Marmi del Fusco giacobino”, precisai) di fronte a Patroni e a me. “Patroni fu molto più effusivo di me”, protestai.

Niente da fare: ero in piena bagarre.

“Perché”, mi chiese, a muso duro, “non scriveresti Città come me?”

Risposi che amavo gli spezzini, non la città. Amavo i picari, i paisanos, la gente di Tortilla Flat. La gente venuta da lontano, da fuori: come lui, come D’Andria, dalle Puglie.

Dissi che, in fondo, la città che amavo era quella universale di Wilder: una qualunque divina Grovecorners.

Fatta di uomini consapevolmente sospesi fra la vita e la morte, tuttavia non lacrimosi, non retorici, non storici.

Di uomini, continuai, che parlavano un italiano senza cantilena, senza cadenza, senza vanteria.

Uomini che non avevano, come me e come Tennessee Williams, “un povero cuore spaventato”.

Fusco mi concedette una breve sospensione di serenità. Quindi mi condusse, paternamente, in piazza Chiodo.

“Guarda la Porta di Brandeburgo”, mi disse, indicando la solenne Porta Centrale dell’Arsenale (capolavoro del provinciale ma eroico Piemonte). “Guardala quando è spalancata, in un giorno di sole, come oggi”, insistette.

“La vedi la collina, alle sue spalle?” domandò.

“Sì”, risposi, vergognandomi di non aver amato la città, nella sua preziosa materia.

“Ora, voltati verso Piazza Verdi”, esortò.

“La vedi la opposta, lontana collina di Migliarina?” chiese con indulgenza.

“Sì”, risposi, con vergogna crescente.

“Guarda la via Generale Chiodo, da qui”, mi impose con fermezza. “Fa’ dei confronti, forza! Dammi un termine di paragone. Osserva i giardini”, continuò.

“Cosa mi opponi?” domandò con esigenza: “Edimburgo? Digione? L’Acquasola?”.

“Scusami”, bisbigliai. “Hai ragione, amo la città.”

“Città come me?” chiese con potenza, riproponendo l’amore letterario di Malaparte.

“No”, risposi con rabbia orgogliosa. “Città come te, come il maestro, come Patroni, come D’Andria, come il Teo.”

“D’accordo”, disse con viso di Gletkin.

“Dimostramelo”, aggiunse, con lo stesso viso.

Come altre volte nel passato, Fusco mi chiamava a una grottesca e folle ordalia.

“Dimostramelo”, ripeté imperiosamente, dinanzi al maestro e a Patroni.

“Come?” chiesi smarrito.

“Qual è la vita nella quale vorresti nascere, morire, poi rinascere, di nuovo morire, così all’infinito?” domandò, con voce di Caligola.

“Via Manzoni”, risposi, cedendogli con sincerità (in quella via, o all’incrocio di essa, avevamo abitato da sempre io, lui, Patroni, Sforsi, compagnia bella).

“Bene”, disse Fusco. “Poiché siamo a due passi, andiamo a rivederla.”

Dopo pochi minuti, eravamo nel sorridente teatro della nostra adolescenza.

“Eccoci all’angolo inferiore della via che tu ami”, esordì Fusco, mostrandomi, a partire dai Giardini, l’intero sviluppo della strada.

“Cosa sai di lei?” domandò.

“In che senso?” gli chiesi, intrigato.

“Sai quanto è lunga?” precisò.

“Non so”, risposi. “Dai Giardini alla collina?” insinuai.

“Certamente”, approvò, “Dai Giardini al Colle, Salita San Giorgio inclusa.”

“Duecentocinquanta metri?” azzardai.

“Sii preciso”, ordinò.

“Insisto”, dissi umilmente. “Duecentocinquanta metri, più o meno.”

“Più o meno, la strada che dici di amare?” bacchettò.

“Benissimo”, aggiunse. “Se tieni davvero a essa, misuriamola.”

“Come?” domandai allarmato, conoscendo la lirica follia dei suoi esperimenti.

“Mettendo il piedino così”, rispose malvagiamente, accostando il tallone del piede destro alla punta del piede sinistro, quindi il tallone del piede sinistro alla punta del piede destro, in accurata e sorridente progressione.

“Piantala, ti prego”, supplicai. “ci prenderanno per matti. Dovremo attraversare via Don Minzoni, via Chiodo, via del Torretto. Intralceremo il traffico. Ci porteranno in Questura, se non direttamente a Volterra”, dissi terrorizzato, cercando l’aiuto del maestro e di Patroni.

“Inutile invocare aiuto”, disse Fusco, con autorità di mafioso.

“Vediamo l’abnegazione. O misuri la tua strada con me, o perdi la strada e l’amico.”

Alternativa folle, ma la scelta era ovvia.

“Va bene”, dissi. “L’unità di misura è il mio piede o il tuo?” chiesi.

“Il mio”, rispose prontamente. “Il mio è più piccolo e più preciso.”

Patroni ebbe l’abusivo compito di assicurare il blocco del traffico nella via Chiodo (la principale strada della città).

Effettivamente il traffico fu bloccato dall’assurda esibizione.

Fusco muoveva un piede dietro l’altro con la grazia femminea di un ballerino classico. Affinché i piedi non debordassero da una rigorosa linea retta, Fusco teneva le braccia rigidamente spalancate, come camminasse sul filo. Col suo fisico charlottiano, le braccia in posizione di aliante, lo sguardo schizzinosamente amoroso, trascinava tutti nella mimica poesia di Luci della città.

La gente riconobbe subito Fusco, Gino Patroni, maestro Cogliolo, il sottoscritto.

Tutti compresero che Fusco, con straordinario atto di follia, stava esaltando, con se stesso, la città nella quale tutti vivevamo.

Probabilmente compresero (non si sa come) che neppure Manzoni in persona avrebbe celebrato la strada con così categorica devozione.

Molti si aggregarono all’irripetibile processione. Un piede dopo l’altro, molti concittadini, spalancando le braccia come funamboli, partirono per conto loro. Un’incredibile processione, da Circo Orfei.

Arrivarono i vigili, ma non si sentirono di interloquire nell’accertamento tecnico-poetico del genius loci.

Patroni avvicinò l’appuntato e, con grande rispetto, gli disse: “Guardi Fusco, appuntato. Ha i piedi in terra, ma è come se fosse sul filo”. Il vigile assentì. E Patroni aggiunse orgoglioso: “Ricorda Zarathustra? Ricorda il funambolo? Lo ammiro – disse Zarathustra – poiché rischia”.

L’appuntato guardò Patroni con deferenza. E questi completò la delirante citazione: “L’uomo deve superare se stesso, poi morire”.

Il conto di Fusco, al termine della salita San Giorgio, fu di 870 piedi. Le risultanze dei molti pellegrini misuratori concordarono. Alcuni geometri sapienti stabilirono una media attendibile.

“Lei è geometra?” chiese Patroni a un signore strenuamente interessato.

Ricevuta risposta positiva, Patroni si rivolse a un altro. Anche questi rispose affermativamente.

“Strano” osservò Patroni, “parecchi geometri, fra gli interessati.”

“Relativamente strano”, commentò garbatamente il maestro. “Nell’ingresso della Scuola Platonica, v’era scritto: qui entrano soltanto i geometri.”

La prova non fu sufficiente.

D’improvviso intuii, con profonda commozione, che il mimo divino presentiva l’imminente abbandono.

“Indicami un’altra strada”, mi disse, questa volta, con affascinante dolcezza. “Mostrami la patria del tuo cuore”, disse con generoso sorriso. “La tua Itaca”, aggiunse, quasi carezzandomi con la voce. “Mostrami la tua vera amante”, mi chiese, con virile melodia.

Guardai il maestro e Patroni. Capii che, più di sempre, dovevo obbedire.

“È una via brutta, umida, stonacata, grigia e puzzolente”, dissi. “Il luogo più squallido del mondo”, aggiunsi. “L’autentico opposto dei Campi Elisi: la sintesi del casino da due soldi, della farinata in mezzo al pane, dei bicchieri color urina del Cantinone.”

“Parla”, impose Fusco teneramente. “Declina la topografia”, scherzò pomposamente.

“Via Marsala”, dissi. “All’angolo con via Magente, dove il Vilàn, Lopedote, Vanacore, appoggiavano la schiena, il gomito, la gamba nel sudicio muro. Arrotolando una sigaretta con tabacco color letame. Restando in silenzio, senza attendere nessun angoscioso Godot. Senza mai avvertire il tempo interiore, per distinguerlo dal tempo registrato.”

“L’autentico Liceo”, conclusi. Senza recitare: per la prima volta nella mia vita.

“Brav”, disse, con affettuosa superiorità, Fusco.

Seguito dal maestro e da Patroni, si avviò al luogo dell’orgogliosa e naturale miseria. Cioè, della poesia.

“Vuoi dire questo punto? Questo preciso quadrivio? Queste pietre fredde, dure, grigie, piene di piscio, smussate dalla miseria?” domandò.

“Sì”, risposi. “Questa è la città come Te. Piena di niente, se non di silenzio, di spontanea volgarità, di tranquilla attesa, di naturale bestemmia, di fede contenuta nella felicità”, urlai, quasi.

“Questo è il-lucido-autentico di Cannery Row”, aggiunsi, “l’originale è stato rubato da qui.”

“Proprio questo muro? In questo angolo?” insistette Fusco.

“Sì”, insistetti a mia volta, con accanimento, “proprio lì, si appoggiava D’Andria, tacendo nella sua severa dignità.”

“Allora, lasciate che io faccia l’amore, per l’ultima volta, con questa autentica Città del Silenzio”, disse Fusco, con la voce di un Pontefice virile e blasfemo.

“Altro che D’Annunzio, con il suo chiassoso e squisito Rinascimento. Questa è la città tutta contenuta nell’anima dei suoi concittadini, dei suoi moscardini. Che non è affatto, al di fuori di essi. Che non ha storia. Che non è mai stata, se non nel nostro purissimo cuore di malavita. Ecco, l’umile città fondata sull’acqua, cara a Keats.”

Così dicendo, Fusco si avvicinò al sudicio cantone e cominciò a carezzarlo. Poi, a baciarlo, tentando di abbracciarlo interamente.

Lo morse amorosamente.

“Mordilo anche tu”, mi ordinò dolcemente, volgendo il viso, per un attimo, verso di me. “Mordilo anche tu”, ripeté, “se ami davvero questa città e la sua anima.”

Ormai, dinanzi al maestro impassibile, a Patroni esterrefatto e a me commosso, il grande Fusco stava consumando un illimitato e sovrumano atto di amore.

Poiché stava calando la sera (la sera delle stelle, dei pipistrelli, delle madri, degli amanti, delle fogne, di Montecarlo, di Stevenson, di Baudelaire, dell’alto notturno volo di Saint-Exupery, dei ladri, dei malandrini) una jeep della polizia si fermò nei pressi.

Il maresciallo che ne discese si accorse subito di non avere a che fare con giocatori di tre carte. Ci riconobbe. Restò senza parole.

Fusco era stretto in amplesso erotico con l’angolo giallognolo e vizzo, come una vecchia meretrice.

Maestro Cogliolo cercò di nasconderlo, coprendolo con l’esile schiena e allargando le braccia.

Io e Patroni ci schierammo dinanzi al maresciallo.

“Ha mai posseduto una città, maresciallo?” domandai, con decisione.

L’anziano sottufficiale capì che stavamo celebrando un altissimo esoterico ringraziamento.

“No, avvocato”, rispose umilissimo.

“Noi sì”, dichiarai, con estatica tenerezza.

Il maresciallo fece un inchino e risalì frettolosamente, sulla jeep.