(Santiago del Cile, marzo 2017)

desert-chile

Mi ricevesti come il pesce Giona

Santiago una brace di bitume ben irrorata

Una nebbia di particolato, di polveri da tappeti imbattuti

Dove i caffè hanno gambe e tacchi cremisi

Per praticarti fori alla base del cranio –

Così mi tenesti appeso-crocifisso alla liana zincata

Della funicolare del Cerro.

Con resina araucana firmammo un patto di reciproca belligeranza

Mentre Pacifico scompigliava la scrima della schiuma

Di alghe carboniche nell’isola vulcanica.

Puntammo la prua terrestre, la intagliammo in nadir

(Avevamo più occhi di quelli necessari per lacrimare)

In cantieri primitivi montarono nautili in luogo ai nostri padiglioni auricolari

Per condannarci ad auscultare dalla valle rigata dal Carmenère

Le detonazioni del mare

come otarie stordite sui bulbi delle petroliere.

In un esperimento complementare mi applicarono

45 colli da cui, su cui

per cui

torcere lo sguardo su un panorama obbligatorio

L’ultimo necessario

sulla valle dove alluminio ed eternit declinano

il delirio cromatico del Pantone.

Ci riconsegnasti nell’unica dimensione che ti è possibile, Cile

Verticale, come la lingua fibrosa dell’alpaca

Ci strofinammo sul cactus sodo

Fino a consumarne gli aculei, mentre il cielo di pellicani immobili

Blindava i cortili sterili della Patagonia

Ingoiandoli nella sua pappagorgia.

Sei un velo inadatto alla pietà, Cile

Sei nel palo dell’alta tensione, trifase, in costruzione

Disteso

O forse arreso – vinto

Sei un cristallo di pioggia acida, ereditato dalla mia schiena al finestrino

Di questo autocarro che ci contiene

Non sai discernere la Cordigliera della guarnizione

Da quella della palizzata che ersero

Per archiviarti nella pozza

Di colori primari

Che ti generarono.