(Bangkok, novembre 2015)

Mi spiegasti che gli spiriti non muovono

che in orizzontale, che per essere al sicuro, per essere

salvi sarà sufficiente frapporre un ostacolo banale tra il salotto

e la camera del riposo, orientata secondo

i precetti del feng shui. Basterà la teiera

di Benjarong di tua madre, un portale di tek con gli intarsi

complessi delle mutevoli forme del Naga. Andammo

insieme al tempio degli stupa di gesso

gli stupa immobili, che non concedono incavi abitabili sopra

alla reliquia del Buddha – un capello, l’unghia estrema.

Ci guardavamo come se le carpe del lago

dovessero inghiottirci, fare a brandelli le nostre carni

terrene, per reincarnarci in un cerchio inferiore

ratto, libellula, drago di Komodo.

I profili lignei dei Garuda erano grucce per l’ossigeno

del mondo, ci avrei poggiato la tua giacca di seta

per invertirne il processo produttivo, spiegare al baco

l’urgenza di tornare verme, che rinunciare alla vita

non valeva la pena, che non esiste ricamo di pashmina

che meriti l’atto estremo, di cui nessuno

racconterà – l’ennesimo miracolo ignorato.

L’immagine del tuo collo si è sovrapposta a tutto

questo, l’incavo tra la scapola e l’epistrofeo

dove la tua pelle ruota, incespica, muta

Colore, dove spalmerei copioso il balsamo

della tigre, il fuoco del balsamo di tigre

rosso divamperebbe per tornire

i tuoi contorni, per lenire i domestici affanni

con un incendio maggiore.

Pensare di dare la vita, per essere un filo che

benefici del tuo calore umano.