Ascensore – istruzioni per l’uso

Piano Terra.

Schiacciare il pulsante di prenotazione.

Basta una volta.

Signora, davvero, non migliorerà le cose.

Imprecare il Signore nemmeno, ragazzino.

Dirigersi verso l’ascensore 3, come da indicazione del segnale acustico.

Dare la precedenza alla signora, poi al fattorino che porta 20 chili di corrispondenza a braccia.

Entrare nel vano.

Chiedere a tutti a che piano sono diretti.

Non ottenere nessuna risposta.

Premere solo il proprio piano.

Fanculo.

Primo piano.

Barattare la signora impaziente con un tamarretto che mastica gomma e punta all’acufene con auricolari dr. Dre a 185 decibel.

Aspettare la chiusura delle porte, passivamente.

Secondo piano.

Sapere in anticipo che il tamarretto avrebbe preso l’ascensore per fare un solo piano.

Ah, quand’ero giovane io!

Palle

Quand’ero giovane io avrei preso l’ascensore anche per muovermi in orizzontale.

È ora che mi è venuta la fissa della pancetta.

Terzo piano.

Aggiornare il conto totale dei passeggeri: tre entrano, uno esce.

Ridistribuire equamente il peso nel vano cercando di controbilanciare l’entropia della collocazione altrui.

Sentire nitido un afrore nell’aria.

Controllare senza dare nell’occhio che non provenga dalle proprie ascelle.

Ecco, così, impercettibilmente, fare finta che ti pruda il naso.

Decontrarre i muscoli, aspettare qualche istante fino a quando non si aprano le porte del

Quarto Piano.

Fissare le scarpe dell’ultimo entrato.

Chiedersi quale inciampo della vita l’abbia portato ad abbinare un calzino a righe blu con scarpe lucide nere.

Seguire le scarpe scomparire oltre la soglia per essere sostituite da un tacco otto, calza a rete, maglie fitte.

Avvertire l’afrore soccombere sotto una fragranza aggressiva, forse Narciso Rodriguez.

Non staccare gli occhi da terra, mai.

Tossire lievemente, nel caso in cui qualcuno cominci un abbozzo di conversazione.

Tendere l’orecchio verso un qualsiasi cigolio.

Non pensare al lungo parallelepipedo di vuoto sotto i nostri piedi, ora.

Reprimere la vertigine.

Intravedere una spallina del reggiseno di Lei apparire da sotto la maglia di flanella ocra.

Controllare il formicolio della gamba sinistra.

Aderire alla parete quando una voce dietro chiede “scusi” per guadagnare il

Quinto Piano.

Scorgere con la coda dell’occhio il neo che rende asimmetrico il suo viso, appena sotto la narice destra.

Arrestare la sudorazione in eccesso.

Avvertire gli scostamenti d’aria provocati da ogni ravvio del suo ciuffo biondo.

Auscultare il silenzio di cinque fiati in una cabina bloccati, sincronizzarsi su uno solo.

Fare perno sulla suola destra per guadagnare gradi di visibilità sul suo collo

Essere improvvisamente scoperti da un brusco segnale che annuncia l’arrivo al

Sesto piano.

Evitare di contare i secondi di convivenza forzata che restano a disposizione

Intravedere – o forse immaginare? – un sorriso timido allargarsi sul suo volto

Sovrastimarlo rivolto a te

Guardare gli altri due

Far finta di non guardare lei

– un esercizio che a lei riesce benissimo

Dedurre fiori d’arancio, un pullmino della Volkswagen fuori dalla Chiesa,

gli scherzi degli amici al taglio della torta

la mascherina per la sala parto, e l’emozione di vedere un neo minuscolo, sotto un naso minuscolo

chiudere gli occhi per chiudere insieme la porta della camera da letto

corredo bianco, mobili bianchi, la luce delle pubblicità della Nivea

riaprire gli occhi e vederla già svoltare verso il corridoio,

mentre l’ascensore sta per riprendere la sua corsa verticale

Guardare la propria ventiquattrore in mano, il badge nell’altro

Avvertire la sorpresa delle risorse umane al primo ritardo della propria vita.

Schiacciare il tasto che arresti la chiusura delle porte.

Gettarsi nel corridoio alla rincorsa dell’eco di un tacco otto

Seguire una fragranza aggressiva, forse Narciso Rodriguez.

Respirare.